I MESTIERI DELL´UOMO. IL MENEGHELLO, 40 cartas 6x4,3cms
IL MENEGHELLO,
Milano Italia. 1987 .
Edizione di 1.000 Es.
40 cartas - ilustraciones.
Precio: 1295€
I MESTIERI DELL´UOMO.
IL MENEGHELLO,
****
Precio: 1295€
***
Milano Italia. 1987 .
Edizione di 1.000 Es.
40 cartas - ilustraciones.
Medidas cartas: 6 x 4,3 cm.
En Italiano.
Adquirido en 1988.
Solamente Exposición.
Estado: EXCEPCIONAL.
Estas cartas pertenecieron a la Asesoría Esotérica CROSNAK para exposición y/o uso (1985-2002).
******
Texto de Nunzia Manicardi.
Illustrazioni tratte dalla serie “I mestieri dell’uomo” di Giuseppe Maria Mitelli (Bologna, 1634-1718), stampate da “Il Meneghello”, Milano 1986.
Ci limitiamo, per ovvi motivi di spazio, a quelli che hanno più a che fare con il nostro settore, partendo, dunque, da quel castrino che gli animali imparavano ben presto a riconoscere anche da lontano, in una specie di “passaparola”, fatto di alte grida terrorizzate, dettate dall’istinto più profondo, che diventavano ancora più angoscianti durante l’operazione a cui venivano sottoposti.
Il castrino conosceva anche l’arte di piallare i denti ai propri “clienti”, per impedire che provocassero ferite alle madri durante l’allattamento. Ma la sua specialità era la castrazione dei tori, un qualcosa di molto difficile da dimenticare, stando a quanto dicono gli sfortunati che hanno avuto l’occasione di assistervi.
Lo stesso veterinario, per altro, delegava volentieri quest’incombenza al castrino, rifugiandosi nella sua professione che, tuttavia, aveva anch’essa i propri guai. I veterinari, infatti, sono stati a lungo guardati con sospetto dagli stessi allevatori, che non di rado preferivano ricorrere a sortilegi e riti presi in prestito dalla superstizione più cieca. A questo proposito, Santunione ricorda la testimonianza di un vecchio veterinario: «Se le mucche si ammalavano, allora si dava la colpa al malocchio e si compiva un rito per scacciarlo, dopo aver acceso un falò in mezzo all’aia. Se un fattore ti mandava a curare quelle vacche, non dovevi proibire il rito per non fomentare l’ostilità dei contadini: se le vacche guarivano era merito del rito, se morivano era colpa dei medicinali».
Meno cruento, ma pur sempre difficoltoso, era l’accapponamento dei galli, che però veniva compiuto non dal castrino, ma da donne del mestiere, che tagliavano e ricucivano con grande abilità gli attributi del re del pollaio, ormai trasformato in un mite cappone.
Un altro lavoro indiscutibilmente umile era quello del letamaro. Santunione così ce lo descrive: «Al primo tintinnare di un campanaccio, ed è ancora notte fonda, il letamaro balza dal letto e prende possesso del suo tratto di strada, che ha concordato con gli altri mestieranti della sua specie per non intralciarsi nella raccolta. È provvisto di una scopa di saggina, una pala e una carriola, che spera di riempire più volte con la manna che gli animali in transito lasciano gratuitamente. A casa un mucchietto di letame attende di diventare “massa”, per essere venduta prima dell’inverno ed ha incaricato i figli di sorvegliare quel piccolo tesoro. Quando declina la stagione dei grandi transiti, prende a girovagare in cerca di occasioni e contende lo sterco ad altri poveracci, a tal punto che si dice che “non arrivasse (lo sterco, Ndr) nemmeno a toccare terra”. Se è fortunato, dispone di alcuni clienti, che lo incaricano di ripulire pozzi neri, porcili e pollai e tanto basta per fargli assumere il “tono” dell’impresario».
Socialmente più “alto” era il lavoro dei conciatori, che si dedicavano ad ammorbidire la pelle degli animali per renderla adatta alla fabbricazione di scarpe, borse e quant’altro.
Questo mestiere richiudeva una grande abilità, non sempre adeguatamente considerata, e la conoscenza di “segreti” che essi si tramandavano gelosamente. Nei tempi più antichi la concia si otteneva mettendo a bagno le pelli in una serie di buche e tinozze per un periodo di circa quindici mesi. Esse venivano poi lungamente battute a mano, ingrassate e tinte con sostane vegetali. I destinatari, naturalmente, erano soltanto i ricchi.
I “perasò” erano giovani garzoni, in tutto simili ai cowboy celebrati nei film d’oltreoceano. Solo che loro giravano la Pianura Padana e andavano a piedi anziché a cavallo. Anch’essi, come i letamari e come tanti altri derelitti destinati alle incombenze più basse, si alzavano a notte fonda per lustrare gli animali, adornarli e metterli in strada per raggiungere i mercati e le fiere. Procedevano in fila indiana, sul lato destro della carreggiata, al lume della lanterna, nel silenzio della notte rotto soltanto dai fischi d’incitamento e dal suono di qualche campanaccio. Per stimolare il passo dei bovini, usavano un nervo di giunco arrotolato su se stesso, simile a quello del mediatore, chiamato “perasò”, dal quale derivava il loro nome. Portavano sulle spalle un fagotto con la merenda e un vestito buono con qualche ornamento da sfoggiare, quando il luogo di raduno era una fiera importante dove non sarebbero mancate le ragazze desiderose, come loro, di fare nuovi incontri che, una volta svanito l’incanto della prima volta, li avrebbero riportati ad una vita coniugale ancora più stentata — soprattutto quando cominciavano a nascere figli — di quella vissuta in precedenza.
Nunzia Manicardi